Ancora una volta è il presidente francese Emmanuel Macron a prendersi la scena: in occasione dell’8 marzo, la Festa della Donna, l’Eliseo ha deciso di inserire all’interno della Costituzione francese il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, o aborto, con l’obiettivo di tutelare ancora di più la libertà di scelta e di autodeterminazione delle donne. Una decisione politica forte che ha destato reazioni decise non solo in Francia, ma anche nel resto del mondo. I toni più duri arrivano, come era facile aspettarsi, dal Vaticano che attacca questa scelta, quasi una scomunica si potrebbe dire, accusando il presidente francese di non tutelare il diritto più importante, quello alla vita. La posizione della Santa Sede sulla questione è in effetti chiara da anni: l’aborto non riguarda solo la vita della donna, ma anche quella del nascituro, che dovrebbe essere tutelata al pari di quella di un lattante o di qualsiasi altra persona.

La questione è ovviamente piuttosto spinosa dal punto di vista morale ed etico. Non è infatti semplice stabilire quando abbia inizio “la Vita”, nemmeno quando finisca in realtà (il dibattito sull’eutanasia per le persone in stato di coma vegetativo è ancora lungi dal giungere ad una conclusione universalmente condivisa), e diverse culture hanno necessariamente generato diverse risposte più o meno valide a riguardo.

Quello che non stupisce è che sia il Paese laico per eccellenza ad essere il primo a compiere un passo tanto audace nella direzione dell’autodeterminazione femminile, dimostrando ancora una volta che le varie ingerenze religiose non possono imporsi sui diritti dei cittadini, siano questi maschi o femmine. D’altronde che la Francia ha in un certo qual modo dato vita alla nozione stessa di questi diritti che, pur essendo per loro natura universali, discendono strettamente dalla cultura occidentale e ne rappresentano in un certo qual modo il risultato più sorprendente e ammirevole.

Ma se in Francia il diritto all’aborto entra nella Costituzione, il resto del mondo non si può certo dire essere sulla stessa lunghezza d’onda. Lasciando da parte gli Stati meno secolarizzati e a bassa scolarizzazione, dove la cultura è ancora profondamente basata su religioni che spesso disapprovano il ricorso ad una pratica che va contro i principi naturali della specie, anche in Occidente il dibattito sulla possibilità per le donne di interrompere la gravidanza è lungi dal chiudersi, anzi in molti Paesi si è addirittura deciso di tutelare il diritto alla vita del nascituro più che quello delle madri, si veda la Polonia che ha reso l’aborto illegale in pressoché ogni casistica, o alcuni Stati degli USA che, dopo il ribaltamento della storica sentenza Roe vs Wade, hanno nuovamente reso impossibile per le donne abortire legalmente.
L’Italia mantiene invece un profilo più basso. Nonostante un governo a trazione decisamente conservatrice, dove sicuramente gli oppositori a tale pratica non mancano, la premier Meloni ha più volte ribadito di non avere alcuna intenzione di fare passi indietro rispetto a quanto fu deciso con il referendum del 17 maggio 1981. Altrettanto salda rimane però la volontà di non compiere passi avanti sulla questione, nonostante una larghissima parte delle provincie italiane non abbiano accesso ad un singolo medico che non si dichiari obiettore di coscienza e acconsenta ad intraprendere simili operazioni; anzi i partiti della maggioranza continuano a intessere relazioni molto forti con quelle associazioni pro-vita che tentano di dissuadere le donne in visita nei consultori.

Il conflitto tra pro-scelta e pro-vita non è destinato a sanarsi nel breve termine: entrambe le parti sono ormai sempre più chiuse rispetto all’altra e una “sintesi” è ancora molto lontana dall’essere prodotta una volta per tutte. Solo il tempo ci dirà, forse, se almeno una delle due parti aveva ragione.