In uno dei primi numeri della nostra rivista StartHub Torino, alcuni anni or sono, avevamo scritto dell’imminente avvento delle auto a guida autonoma, prevedendo il raggiungimento del livello cinque di guida autonoma per fine del 2022 e una flotta di taxi senza driver che avrebbe invaso prima le città americane e poi quelle europee.
In realtà le previsioni degli esperti si sono rilevate sbagliate: l’auto a guida autonoma è ancora da venire e molti dei problemi connessi non sono ancora stati risolti sia dal punto di vista tecnico che organizzativo.
Il che evidentemente ci rafforza la lezione: spesso nelle previsioni per il futuro si possono prendere da un lato abbagli e dall’altro viceversa non vedere fenomeni carsici che magari si rivelano esplodendo all’improvviso.

Vi sono però oggi due fenomeni per cui la tendenza è ben chiara e la cui importanza è crescente di giorno in giorno sia negli aspetti legati alla produzione di beni e servizi sia gli aspetti sociali.
Come evidenzia lo scrittore divulgatore statunitense Alec Ross (Alec Ross, imprenditore esperto di tecnologia, consigliere del dipartimento di Stato per l’Innovazione con Hillary Clinton) il primo elemento è sicuramente lo sviluppo dell’utilizzo di robot (antropomorfi o meno) che man mano sta sostituendo e sostituirà sempre di più tutta una ampia serie di compiti prima delegati agli umani. In molti casi si tratta di compiti prevalentemente fisici, ed è perciò un fenomeno che va a colpire una fascia di lavoro meno qualificata e meno retribuita, sicuramente più a rischio di fragilità sociale ed economica. È vero che siamo ancora lontani da poter utilizzare i robot per molti compiti; ma le difficoltà tecniche sono oggi ben chiare e si tratta probabilmente semplicemente di proseguire in ambiti di ricerca già ben definiti (ad esempio il tema della sensibilità delle mani barra dita).
Per inciso uno dei temi interessanti che Ross analizza in questo libro è la reazione delle società di fronte all’introduzione di robot e soprattutto di robot antropomorfi. Ross segnala come le società orientali che hanno un fondamento animista nelle loro convinzioni morali, etiche e talvolta religiose, siano le più pronte e meno chiuse ad accogliere questo tipo di cambiamento. Ross sottolinea come invece la società occidentale con i suoi miti negativi sull’argomento (il Golem, la parola ceca Robota, il mostro di Frankenstein…) possa risultare essere meno pronta ad accogliere queste innovazioni, e pertanto anche a realizzarle e esserne protagonista da un punto di vista imprenditoriale ed economico.

L’altro aspetto che si propone prepotentemente alla ribalta in questo periodo è il tema dell’intelligenza artificiale, la I.A. .
Lasciamo un attimo da parte i dubbi filosofici-futuristi sull’eventualità che l’I.A. sia il primo passo per l’evoluzione di una nuova specie che sostituirà noi umani anche al fine di tutelare l’intero pianeta dai danni che provochiamo.
Indubbiamente però la I.A. sta profondamente modificando tutti i campi del sapere e a cascata dell’operatività economica e sociale.
La I.A. sta entrando prepotentemente in ogni ambito: ingegneria, IT, medicina, diritto, arti liberali; sta inoltre rapidamente prendendo un ruolo centrale nell’organizzazione delle conoscenze già oggi presenti tutta la rete, per conto nostro le organizza, le struttura e le rende immediatamente fruibili (pensate a chat gpt).
Non sfugge tra l’altro che intelligenza artificiale posta a controllare robot potenzia il trend che abbiamo visto nel punto precedente, rendendo le macchine sempre più potenti, versatili e controllabili.

Tutto ciò però ha un immediato effetto che diventerà sempre più forte, fortissimo, nei prossimi dieci, vent’anni: la rottura del delicato equilibrio economico e sociale tra le diverse classi, già oggi in profonda crisi per modalità di produzione e di distribuzione del reddito.
È evidente che l’affermarsi dell’automazione da un lato e della I.A. dall’altro porterà drasticamente una completa ristrutturazione del mondo del lavoro e dei posti di lavoro disponibili. Tutta una fascia di lavori più manuali saranno quasi azzerati; e si verificherà una drastica riduzione di molti altri posti di lavoro anche in fasce più alte.
Assolutamente non voglio proporre (e non la condivido) la solita litania luddista iniziata a Londra nel 1800 quando le automobili sostituirono cavalli nel servizio di auto pubblica. E continuata man mano che la nostra società si è trasformata da agricola a economia dei servizi avanzati tecnologici informatici.
Sebbene però sia certo ed evidente che si creeranno molti nuovi posti di lavoro nei settori connessi proprio all’automazione, alla robotizzazione e all’intelligenza artificiale, alcune riflessioni da prendere se non altro come warning sono a mio avviso da avanzare.

I posti di lavoro che si andranno a creare con ogni probabilità saranno posti di lavoro riservati a chi ha una formazione tecnica e di livello medio alto. Ma questo lascerà drammaticamente scoperto ampie fasce della popolazione che potrebbero essere colpite duramente.
D’altra parte bisogna anche evidenziare che l’innovazione che viene portata avanti dai congiunti mutamenti tecnologici che abbiamo descritto è un’innovazione ancora più epocale e vitale di quelle che l’hanno preceduta, perché colpisce simultaneamente tutti i settori e molti livelli di occupati.
Da sempre esistono teorie che preconizzano come la nostra società e la nostra economica debba orientarsi verso una riduzione del monte ore lavorativo e/o di una ridefinizione dei periodi di vita attivi.
A parte il pensiero di decrescita felice come Serge Latouche, questa previsione è già stata avanzata come ipotesi quasi trent’anni or sono da Jeremy Rifkin nella sua opera “La fine del lavoro”.
Come abbiamo già detto le previsioni spesso non ci azzeccano, ma spesso si tratta soltanto dei tempi di realizzazione!
Ma se questa previsione di drammatico e totale mutamento dei paradigmi lavorativi è anche solo parzialmente vera, appare evidente e necessario che non solo la politica ma l’intero corpo sociale e coloro che nella società sono chiamati ad essere l’avanguardia del pensiero e del progetto debbano affrontare senza indugio questi temi.
Il patto sociale che si era formato nel 1700 tra le classi dominanti (democrazia liberale e capitale per lo sviluppo) e che si è evoluto (sia pur con tutti i limiti) per molti aspetti nel 1800 nel 1900 verso una condivisione della ricchezza e dei frutti della produttività tra il capitale e le classi lavoratrici, potrebbe non essere più drammaticamente attuale e attuabile.
La riduzione del lavoro potrebbe non essere l’eden reso possibile in terra dalla tecnologia, in cui si lavora per vent’anni quattro ore al giorno e ci si dedica allo sviluppo della propria personalità, della propria famiglia, dei propri interessi.  
Potrebbe essere invece la realizzazione della polarizzazione estrema, con masse escluse dalla possibilità di un salario dignitoso.
Si tratta allora di pensare a quale modello di società e di mercato vogliamo e possiamo andare incontro, sapendo che oltre certi limiti meccanismi di autoregolamentazione nella produzione e soprattutto nella distribuzione della ricchezza difficilmente possono funzionare. E e a quel punto la politica, ogni forma di azione politica, anche drammatica, diventa attuale e possibile.