L’Italia ha da anni ormai una conclamata penuria di lavoratori. In particolare in alcuni settori, che spaziano dalla programmazione alla macelleria, trovare dipendenti è estremamente difficile. E andrà sempre peggio; tra meno di 10 anni mancheranno oltre 2,5 milioni di lavoratori per rimpiazzare la generazione dei baby boomers, prossima ormai alla pensione.
Ciò che però è altrettanto evidente è che l’Italia ha molte risorse a disposizione che non sfrutta o, per meglio dire, non riesce a sfruttare. Siamo infatti il terzo Paese UE per percentuale di disoccupati sul numero totale di occupabili e se si guarda alla disoccupazione giovanile saliamo in seconda posizione.
Viene da chiedersi come sia possibile un controsenso del genere: non abbiamo abbastanza lavoratori, eppure sono in molti che cercano un’opportunità per dimostrare il loro valore e contribuire alla società. È vero che siamo il Paese del “nero”, ma questa spiegazione pare semplicistica e insufficiente. Né il fenomeno della fuga dei cervelli, un altro grave problema del Belpaese, basta a colmare quello che sembra prima di tutto essere un mismatch tra domanda e offerta, ma in realtà è un problema ancora più profondo.

Uno dei settori più colpiti da questa crisi dell’offerta è quello sanitario. In particolare gli infermieri, ma anche i medici, sono sempre più carenti e coloro che hanno la vocazione per il mestiere spesso sono tentati da offerte ben più ricche provenienti da Paesi come la Norvegia e l’Arabia Saudita, forti di un’economia basata sull’export di petrolio e dunque in grado di remunerare molto generosamente coloro che scelgono di trasferirsi. In compenso importiamo sempre più infermieri e operatori socio-sanitari dall’Africa, che si impoverisce a sua volta di risorse proprio come noi. Un gioco di concorrenza davvero spietata in cui si campa solo finché c’è un pesce più piccolo da mangiare. Certo il problema sono principalmente i soldi, e il sistema sanitario pubblico italiano è ormai da più di un decennio in costante apnea, ma probabilmente anche una revisione del ciclo di studi potrebbe essere una buona idea. Per decenni una scuola di formazione parificata al diploma è stata sufficiente per formare generazioni di ottimi infermieri, tra coloro che contribuirono a rendere in passato il nostro uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, perché richiedere ora una laurea? Non si rischia di scoraggiare ancora di più le nuove leve ad approcciarsi ad un mestiere notoriamente faticoso e con un compenso che, anche ammettendo arrivino gli auspicati aumenti, non è certo tra i più elevati?

Il settore della sanità è particolarmente martoriato, ma se Atene piange Sparta non ride. E ormai la difficoltà a trovare nuove risorse e a trattenerle in azienda (evitando costosi turnover) è un problema diffuso in pressoché ogni settore, come si diceva. Per colmare questa incapacità di trovare una quadra tra domanda ed offerta l’INPS ha deciso che nei prossimi anni metterà a regime un’intelligenza artificiale proprio con il compito di dare un’occupazione a chi non ce l’ha. Ma le IA non sono una bacchetta magica e pensare che un’intelligenza di silicio risolva i problemi che quella di carbonio non è riuscita a risolvere appare difficile.
C’è un problema infatti che mina internamente il mondo del lavoro, ovvero la velocità con cui il digitale impone ai lavoratori di acquisire nuove competenze. Fino agli anni ’90 un lavoratore formato per fare il suo lavoro avrebbe avuto delle conoscenze spendibili per pressoché tutto il resto della sua vita lavorativa, mentre oggi ciò che si è imparato 10 anni fa è quasi sempre già obsoleto. E non è semplice continuare a formare risorse anche dopo la conclusione del ciclo scolastico e di inserimento aziendale perché banalmente rappresenta un costo materiale e di tempo alle aziende non indifferente e allo stesso tempo è irricevibile la proposta di doversi formare durante il tempo libero per lavoratori mediamente insoddisfatti e che spesso si sentono sottopagati. Le uniche aziende che riescono a tenere il passo da questo punto di vista sono quelle più grandi e potenti, che possono permettersi ingenti investimenti per non rinunciare ad un personale qualificato, mentre le medie e soprattutto le piccole arrancano e si trovano a subire una concorrenza sempre più “sleale”. Tutto ciò contribuisce inevitabilmente a polarizzare ancora di più la ricchezza e si riverbera in un sempre maggiore malcontento sociale su più livelli.

Se estendiamo poi l’analisi da un piano materiale ad uno più astratto è evidente come la crisi del lavoro sia un problema molto più profondo e radicato. È cambiata infatti la mentalità con cui le nuove generazioni si approcciano al lavoro: Gen Z e Millenials sono stati cresciuti a pane e singolarismo e sono dunque meno disponibili a compiere sacrifici; hanno comunque le loro ragioni, sia chiaro. Le vecchie generazioni si trovano davanti al fallimento di non essere riuscite a lasciare prospettive di miglioramento per il futuro della comunità e questo non può che riverberarsi con effetti negativi sulla propensione allo sforzo. “Perché dovrei spaccarmi la schiena se siamo condannati dal clima, dal declino economico e da quello demografico?” Una domanda a cui è difficile dare risposta ora come ora. Si potrebbe rispondere che senza sacrifici e olio di gomito la situazione certo non migliorerà, ma ormai nessuno può dare più la certezza che ci dirigiamo verso un futuro migliore e le nuove generazioni si sentono quindi tradite dal sistema e dalla società stessa.

Ma se il patto sociale tra nuove e vecchie generazioni e tra datori di lavoro e lavoratori è in grave crisi, per non dire che si è spezzato, come si può fare per dare nuovamente linfa alla comunità?
Chi scrive ovviamente non ha una soluzione, ma che un’intelligenza artificiale possa arrivare a risolvere dei problemi così complessi pare comunque assai improbabile. La speranza è che comunque riesca ad arginare un minimo il problema, in attesa che vere risposte a una crisi dovuta ad una transizione epocale (o addirittura a più transizioni in base al punto di vista) arrivino dal mondo della politica, da sempre preposto a questo ruolo.