Le società umane sono in continua evoluzione, pur nell’illusione di una qual certa fissità, e la nostra non fa certo eccezione. Un occhio esperto come quello di Alex Pentland, professore di Media Arts and Sciences al MIT di Boston e tra le altre cose citato da Forbes come uno dei 7 data-scientist più influenti al mondo, ha posto l’accento in questo senso su come la nostra società si stia “informatizzando” sempre più non solo da un punto di vista meramente pratico (quante innovazioni digitali sempre più dirompenti si susseguono ormai da anni?), ma anche da un punto di vista giuridico e legislativo. Un cambiamento dettato dalla necessità di affrontare sfide sempre più complesse e globali in una realtà sempre più complessa e globalizzata. Già oggi, sottolinea Pentland, le burocrazie si muovono anche grazie ad una sempre più massiccia implementazione di algoritmi predittivi, che permettono di operare scelte in maggiore sicurezza.
Eppure questo sodalizio tra uomini e macchine ha un lato oscuro che non può essere trascurato: gli umani hanno sempre, attraverso le loro tecnologie, puntato a sviluppare strumenti che permettessero loro di migliorarsi e divenire più intelligenti ed interconnessi, mentre ora assistiamo ad un cambio di paradigma per cui iniziamo a demandare alle macchine il compito non solo di agire, ma anche di pensare al posto nostro. Una scelta pericolosa che mette nelle mani di pochissimi possessori di dati ed algoritmi una quantità di potere semplicemente immensa, oltre a deprimere le potenzialità dello stesso intelletto umano.


Per scongiurare un simile scenario è fondamentale rafforzare la supervisione e la responsabilità sugli algoritmi informatici, una via percorribile solo imparando dalla struttura dei sistemi uomo-macchina e dalla sua evoluzione a cui abbiamo assistito nello scorso secolo. E analizzando questa struttura diviene evidente che non si può che accettare un assunto chiave: non possono essere costruiti sistemi-uomo macchina che funzionino e basta, ma è necessario procedere a costanti aggiornamenti per renderli efficienti. A dire il vero, alla luce dei nuovi trend dettati dall’avanzare delle tecnologie, è evidente come il long life learning non sia più un plus per il nostro sistema, ma debba divenirne il core per evitare di trovarsi tra masse di uomini di mezza età inoccupati non in grado di contribuire alla società perché non debitamente formati. Per sfruttare al meglio poi questo sistema risulta chiaro che è necessario tenere presente due elementi chiave: la modularità, che rende più semplice la revisione di un processo e la sua eventuale modifica, ed il controllo della qualità dell’operato. Ovviamente per accertarsi che la strada sia quella giusta non si può prescindere dallo strumento del test, il cui eventuale insuccesso deve iniziare ad essere considerato una parte integrante del processo costruttivo più che un irritante fallimento.
Paragonando i sistemi uomo-macchina odierni ai nostri apparati burocratici risulta evidente che l’attuale sistema pecca sia in modularità che per sistemi di controllo, se si considera il legislatore come l’entità su cui ricade il compito di aggiornare l’architettura generale del sistema. Ma sarebbe sciocco pensare che questa colpa debba ricadere interamente sulle spalle di un legislatore non sufficientemente competente, quanto su limiti sistemici del nostro sistema politico e sociale che non ci permettono di stabilire sempre con la massima chiarezza gli obiettivi a cui tendere, scelte e visioni politiche diverse sono alla base della nostra democrazia, e come si possa saggiare la marcia verso questi.

Del resto che sia venuta a crearsi una simile situazione di accumulo di potere e ricchezze nelle mani di pochi non deve stupirci: gli ultimi 150 anni hanno dimostrato come ogni cambio di paradigma sociale tenda ad aumentare la concentrazione di potere e denaro per pochi, ma le istituzioni ed i cittadini hanno saputo creare un contrappeso a questo sbilanciamento attraverso sindacati ed altre forme di cooperazione attiva. Oggi il problema però non ha ancora trovato soluzione e, perdendo il controllo sui nostri dati, abbiamo lentamente eroso anche il nostro controllo sulle nostre scelte, sempre più guidate da chi con i dati può modificarle o, più subdolamente, guidarle. Il problema è che smarrendo questo controllo abbiamo smarrito anche sempre più il senso stesso di comunità, lacerati tra i bisogni specifici delle varie parti che la compongono, in un mondo sempre più personalizzato.
E allora, conclude Pentland, è proprio a questo senso di comunità smarrito che bisogna tornare per dar vita ad una società computazionale che però sia strettamente fondata sulla comunità stessa e su quelle nuove soluzioni di rete distribuite in grado di dare il là ad una nuova generazione: l’edge o federated computing. La decentralizzazione dei dati lascia maggiore spazio al locale che rende più semplice la coordinazione tra i vari attori di questa realtà. La nascita di questa società però non potrà prescindere da una metodologia inclusiva che permetta a tutti di partecipare alla creazione dei sistemi e da indicatori che prescindano dall’aspetto meramente finanziario (o quantomeno non tengano solo quello in considerazione) e conducano verso orizzonti di sviluppo più che verso la semplice crescita.