Quest’anno, nella Giornata internazionale per i diritti delle donne, un tema insolito, originale e pregnante è stato il fulcro della riflessione di alcune studentesse dell’Università parigina Panthèon-Sorbonne. Si tratta della cosiddetta charge mentale, ossia dell’eccessivo carico di lavoro che incessantemente pesa sulle spalle delle donne impiegate nel settore culturale. Non solo artiste, ma anche amministratrici, coordinatrici, mediatrici – tutti i mestieri nascosti dietro alle quinte delle creazioni culturali contemporanee vengono portati alla luce, con l’intenzione di sviscerarne le ineguaglianze e le difficoltà. 

La conferenza organizzata su queste tematiche, dal titolo “Il carico di lavoro nel settore culturale: parlarne, sapersi attrezzare” (ndr “La charge mentale dans les milieux culturels: en parler, s’outiller”) ha avuto luogo nel tardo pomeriggio di venerdì 8 marzo nel cuore del quinto arrondissement di Parigi, più precisamente nell’anfiteatro di Césure, una struttura che accoglie laboratori, spazi di coworking e sale comuni a disposizione delle associazioni occupanti.  

Moderate da quattro studentesse, le relatrici invitate a condividere la loro esperienza su questa tematica appartengono a sfere diverse dell’ambiente culturale. Valia Kardi, artista e performing art curator, riveste una posizione di direzione all’interno della struttura Main d’Oeuvre, situata nella periferia parigina settentrionale. Luogo di immaginazione artistica cittadina, questo spazio di creazione e di produzione mette a disposizione laboratori, sale di registrazione musicale e un’intensa programmazione di artisti emergenti in tutte le discipline artistiche. Camille Cheminet, incaricata di diffusione per la compagnia Décor Sonore, è al contempo volontaria come referente della commissione pari opportunità di genere della Federazione delle Arti di Strada in Ile de France, così come la collega Charlène Helleboid, che riveste un ruolo di coordinazione in seno alla stessa Federazione. Infine, l’artista Valérie Simoncelli è stata invitata ad accompagnare la riflessione delle relatrici, realizzando in diretta un’opera d’arte tridimensionale sulla base delle suggestioni raccolte durante l’incontro. 

L’obiettivo? Lasciare una traccia palpabile della riflessione collettiva sull’impatto delle dominazioni strutturali di genere e di classe nel mondo del lavoro associativo e culturale – delle conseguenze invisibili ma allo stesso tempo inconsapevolmente acquisite sia dalla parte delle lavoratrici, sia dalla parte del settore dominante. In questo vasto panorama, l’accento posto sul carico di lavoro femminile permette di prendere le mosse da un fardello che deborda nell’ambito lavorativo, smascherando il modello di ripartizione sociale squilibrata tra gli uomini e le donne. 

Quest’espressione, carico di lavoro, appare per la prima volta in Francia sotto la forma di charge mentale, in un articolo scritto dalla sociologa Monique Haicault nel 1984. La medesima definizione viene ripresa nel 2017 dalla psichiatra Aurélia Schneider, specialista delle teorie comportamentali e cognitive. Letteralmente traducibile come “peso mentale”, questa nomenclatura “non è una semplice somma di compiti o il fatto di vivere due giorni in uno, ma il fatto di coesistere in due mondi allo stesso tempo e non solo uno dopo l’altro. I due mondi – professionale e domestico – coesistono e si sovrappongono, complicando la gestione del tempo e dello spazio.” I due universi, quello domestico e quello professionale, sono messi in parallelo: tuttavia, sebbene sia importante considerare la sfera lavorativa alla luce delle teorie riconducibili all’etica della cura, quest’operazione non è ancora sufficiente. È necessario rimettere in questione l’intero paradigma attuale del lavoro, e prendere parte alla decostruzione degli stereotipi di genere che vi sono annessi. Come sostiene la filosofa e psicanalista Cynthia Fleury, la teoria della cura – intesa come care, ossia come prendersi cura di, in senso etico e morale – è alla base di un pensiero politico sulla dignità. Non è un caso, dunque, se il suo saggio dedicato a questo tema è fondato su una concezione relazionale della società, dove non può esistere dignità senza aver in precedenza sviluppato una relazione degna tra i soggetti. 

Fin dall’infanzia, gli stereotipi giocano un ruolo chiave nelle costruzioni sociali di genere, che si ripercuotono nell’ambito lavorativo; per averne un’immagine più chiara, prendiamo alcuni semplici esempi, immaginiamo insieme alcune scene quotidiane. Innaffiare le piante dell’ufficio, sistemare e spolverare gli ambienti comuni, arrivare in anticipo alle riunioni per assicurarsi che i dispositivi funzionino e redigere l’ordine del giorno. O ancora, organizzare pranzi e cene di lavoro, fermarsi dietro la scrivania al di là dell’orario di lavoro per terminare tutti i compiti, faticare fino a tarda sera per deporre le domande di finanziamenti con le quali si potrà garantire il proprio posto di lavoro. Azioni talmente scontate da essere rischiosamente banalizzate, che assurdamente generano un senso di colpa istintivo se non vengono assolte. 

Ad oggi, si sente spesso parlare di burn-out al lavoro, di depressione, di senso di inadeguatezza. Se ne discute molto, ma si tralascia di nominare veramente il problema, e di approfondirne l’origine. Denominatore comune degli esempi sopracitati è l’impressione di dover costantemente anticipare i compiti e gli imprevisti, mettendo in atto numerose risorse che non vengono adeguatamente riconosciute e ricompensate.  

Si tratta di una considerazione oggettiva, a cui si aggiunge la crisi economica che aggrava di anno in anno la situazione del settore culturale. La conseguenza è che i finanziamenti che permettono il funzionamento delle strutture e dei centri vengono ridotti dai poteri pubblici, accrescendo inversamente il senso di precarietà dei progetti e dei lavoratori. Per le lavoratrici, però, la situazione è più grave: a questa prima forma di precarietà economica, infatti, si aggiunge quella legata ai rapporti di dominazione di genere, e quella dovuta alle differenze di classe e di etnia. 

Poste queste premesse, è importante sottolineare il punto di partenza, che viene spesso usato come erronea argomentazione da parte di chi crede che tali problemi e difficoltà non esistano – il famoso “mestiere-passione”, che come una bacchetta magica pare giustificare tutto il lavoro svolto senza essere riconosciuto. Lavorare con passione significa prima di tutto lavorare, ossia mettere a disposizione delle competenze, un’organizzazione, dei tempi di preparazione e una quantità considerevole di mezzi per permettere a un progetto di emergere. Se l’arte può apparire come un mestiere-passione, allora tutto questo lavoro deve essere valorizzato e riconosciuto, non invisibilizzato. Se è vero che le produzioni culturali devono essere difese, bisogna tuttavia rispettare le persone che permettono a queste creazioni di esistere e di essere viste. Al momento, la situazione è talmente estenuante che sempre più professioniste della cultura abbandonano il loro posto di amministrazione, gestione o direzione a causa degli stipendi troppo bassi, scegliendo piuttosto di reinventarsi un mestiere a seguito di una riconversione professionale

Ma come fare, concretamente, per cambiare prospettiva? La conferenza dell’otto marzo mira proprio a dare una risposta a questa domanda, partendo dalle differenti esperienze delle relatrici e arrivando a trovare collettivamente degli strumenti comuni per riorganizzare gli ambienti lavorativi in maniera più equa. Il titolo dell’incontro, “parlarne, sapersi attrezzare”, contiene al suo interno un’indicazione metodologica. Seguendo la struttura partecipativa del forum aperto, la ricerca di proposte e di comportamenti utili da adottare è stata realizzata insieme al pubblico presente in sala, diviso in piccoli gruppi di discussione. Attraverso una breve lista di domande a cui rispondere, alcune strategie efficaci e a portata di mano sono state prese in considerazione, rovesciando il comune sentimento di collera e di indignazione nella volontà di cambiare le cose.

In primis, la sorellanza e l’aiuto reciproco tra donne implicate nelle stesse mansioni, così come l’organizzazione di vere e proprie missioni dedicate alla formazione del personale e delle risorse umane sono stati i punti pregnanti di questa riflessione. Non solo: la ricerca di strutture di mediazione di conflitti tra impiegati e impiegate, l’attivazione di centri per il sostegno psicologico ed emotivo e la messa in atto di un accompagnamento giuridico delle piccole-medie imprese culturali. Il vero problema è che sempre meno impiegate conoscono veramente il diritto del lavoro, il contenuto delle convenzioni collettive e le rivendicazioni possibili. Se rallentare il ritmo dei progetti e delle programmazioni sembra una sfida impossibile – l’ipotesi di lavorare 35 ore settimanali viene salutata con una risata dalle relatrici -, d’altra parte indirizzarsi a dei dispositivi di aiuto esteriori o di gestione dei conflitti sembra un’ipotesi percorribile. 

In un mondo culturale dove i veri posti decisionali sono ancora ricoperti da uomini che perpetuano un’importazione verticale e gerarchica, il ripensamento totale della governance in una direzione più orizzontale ed equilibrata sarebbe la soluzione ideale, purtroppo ancora troppo lontana.

Contributo di Martina Pontello