Il poeta latino Orazio scrisse che esiste una misura in tutte le cose. Ci sono determinati limiti al di là e al di qua dei quali non può esserci il giusto” . Questa massima è una delle più citate di tutta la letteratura latina, ma probabilmente anche una delle meno ascoltate: non lo è sicuramente da politici ed economisti, convinti come sono che la crescita dell’economia non debba avere limiti.
La crescita economica è l’argomento centrale del dibattito politico, ed è il principale metro di giudizio dell’azione di un governo. Ricorrono continuamente le espressioni “crescita sostenuta” o “debole” o “fragile”, del PIL generalmente ma anche dell’occupazione, della produttività e così via; e niente fa più paura della “recessione” o del “declino”.
Negli anni ‘70, il dibattito sui limiti dello sviluppo fu archiviato dagli economisti come catastrofista, analogamente a quanto era già avvenuto nell’800 con le tesi di Malthus sull’impossibilità di sostenere indefinitamente la crescita della popolazione, più rapida della crescita della produzione agricola.
L’ottimismo degli economisti è motivato, in breve, dalla capacità del sistema di generare innovazioni, soprattutto tecnologiche, in grado di alimentare continuamente la crescita delle risorse; per i più ortodossi, il mercato, attraverso la funzione segnaletica dei prezzi, stimola l’uso efficiente delle risorse scarse e la ricerca di nuove soluzioni.
Ora sono le pressioni dell’attività umana sull’ambiente a riaccendere il dibattito e chiaramente l’argomento che finora hanno avuto ragione gli ottimisti è molto debole, perché è sufficiente che si sbaglino una sola volta per mettere fine ad ogni discussione…

Ma al di là della questione ambientale, è il caso di fermarsi a riflettere sul concetto di crescita infinita. Ho letto recentemente il volume “Crescita. Dai microorganismi alle megalopoli” di Vaclav Smil . L’autore, come evidenziato dal titolo, analizza in prospettiva storica e in alcuni casi anche geologica una serie di oggetti, organici e inorganici, semplici e complessi, per concludere che non esistono traiettorie di crescita illimitate nel tempo.
Per tutti gli oggetti fisici questa è un’ovvietà. La questione non è se la crescita si arresterà prima o poi (e si avrà eventualmente una decrescita), ma quando.

Prendiamo ad esempio la popolazione: è evidente che non si può avere crescita infinita, a meno di non riuscire a colonizzare lo spazio. “Mantenere costante il tasso di crescita al livello del periodo 1980-2000 farebbe aumentare la popolazione mondiale di più di 10 volte [NdA: quindi oltre 80 miliardi] entro il 2150 e condurrebbe a un inconcepibile totale di circa 540 miliardi entro l’anno 2300” . Il punto di svolta, quindi, se misurato con tempi storici, non è lontano anche se al momento non è possibile identificarlo senza enormi margini di incertezza. Quello che è invece è noto è che la stagnazione e forse il decino della popolazione è già arrivato o è imminente in alcune aree, Giappone ed Europa in particolare, portando con sé tutti i problemi legati alla cosiddetta transizione demografica. Non è questa la sede per esaminare un tema di questa portata; mi limiterò a citare come caso esemplare il Giappone, dove la popolazione risulta già da anni in declino e, a differenza dei paesi europei, non è compensata da immigrazioni massicce. La diminuzione della popolazione ha determinato un forte invecchiamento della popolazione, con conseguenze di difficile gestione per la sostenibilità del sistema economico, e in particolare del sistema di welfare. Problemi analoghi, come tristemente noto, affliggono anche la maggior parte dei paesi europei, prima fra tutti l’Italia. L’opzione di ricorrere all’immigrazione di persone in età lavorativa per compensare il declino demografico, al di là di tutte le problematiche culturali e sociali che comporta, consente solo di “esportare” il problema ai paesi di origine, che si vedono privati della popolazione attiva, e non costituisce quindi una soluzione strutturale al problema.

L’enorme crescita demografica dell’ultimo secolo ha fatto sì che l’uomo e i suoi animali domestici rappresentino oggi il 90% della biomassa, cioè della massa degli organismi viventi, mentre ne erano una frazione insignificante all’inizio dell’epoca storica. Ma ancora più impressionante è la crescita dei manufatti dell’uomo, la cosiddetta massa antropogenica: secondo una ricerca del Weizmann Institute of Science, un’Università israeliana, essa ammontava ad un 3% circa della biomassa nel 1900 ed è arrivata a superarla nel 2020. Le considerazioni sulla traiettoria di crescita della popolazione possono quindi estendersi, e a maggior ragione, ai manufatti: anche qui dovremo vedere prima o poi, anche indipendentemente dai problemi ambientali, un punto di arresto.
E quando si parla di manufatti, si parla di economia: il Prodotto Interno Lordo è per definizione il valore monetario della produzione annua di beni e servizi. Anche per il PIL valgono quindi le considerazioni sui limiti alla crescita. Eppure, come osservavo all’inizio, l’agenda della politica è ossessionata dalla crescita del PIL.
La sintesi di Boulding è particolarmente efficace: “Chiunque creda in una crescita indefinita di qualsiasi oggetto fisico, su un pianeta fisicamente finito, o è pazzo o è un economista” .
Sull’atteggiamento degli economisti, mi torna in mente una storiella che lessi diversi anni fa sull’Economist: dopo la propria morte, Einstein è ricevuto dal guardiano alla porta del Paradiso, che lo conduce alla nuvoletta dove dovrà passare l’eternità. Lì si presenta ai suoi tre nuovi compagni per l’eternità. “Piacere”, chiede al primo, “qual è il tuo QI?”. “150”, risponde questi. “Fantastico”, dice Einstein, “potremo discutere di relatività e meccanica quantistica”. Al secondo, che rivela un QI di 110, Einsten risponde: “Bene, superiore alla media. Potremmo parlare di politica internazionale e pace nel mondo”. E infine il terzo: “E tu?”. “50”, risponde quest’ultimo. “Oh poveretto! Va be’, dammi la tua previsione del PIL per il prossimo anno” .

Tornando al PIL, c’è un altro aspetto che vorrei sottolineare: la produzione annua che esso misura si va ad accumulare sullo stock della produzione passata. Più precisamente, la produzione annua di beni e servizi si può classificare in beni e servizi di consumo, destinati all’utilizzatore finale (ad esempio cibo, vestiti, elettrodomestici, servizi sanitari, scolastici, ricreativi etc.) e beni di investimento, ovvero prodotti che servono a fabbricare altri prodotti o servizi (ad es. impianti, macchinari, mezzi di trasporto, etc.) e che vanno ogni anno ad accumularsi allo stock di manufatti, il capitale fisico, esistente. Per essere ancora più accurati, il termine “lordo” con cui si qualifica il prodotto interno sta a significare che i beni di investimento sono a loro volta lordi, comprensivi cioè degli investimenti necessari a sostituire il capitale esistente. Tirando le somme, tutto ciò significa che anche una crescita zero (o perfino negativa) del PIL è compatibile con un incremento della massa antropogenica: è sufficiente che il livello del PIL sia tale da consentire investimenti netti positivi, ovvero superiori al loro tasso di sostituzione. E questo anche trascurando il contributo alla massa antropogenica derivante dai rifiuti generati dai beni di consumo.
Se tutto questo vi sembra ostico, non preoccupatevi: dipende dal fatto che non siete economisti, e forse è meglio così… Il succo del discorso è che, se esiste un limite alla crescita della massa antropogenica, il PIL dovrà smettere di crescere, e anzi decrescere, prima del raggiungimento di questo limite.

A questo punto bisogna però esaminare un aspetto che al lettore attento non sarà sfuggito: ho considerato il PIL solo come fonte della crescita dei beni, ma una sua componente, che nelle economie avanzate è ormai preponderante, è rappresentata dai servizi, che non comportano, o comportano in misura minore, generazione di manufatti e impatti ambientali.
L’innovazione tecnologica ha già permesso la digitalizzazione di molti processi e prodotti e la conseguente dematerializzazione di parte dell’economia. È verosimile che il progresso continui, e che gli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale aprano ulteriori prospettive inesplorate.
Si può immaginare uno sviluppo senza crescita materiale, e ad un accumulo di capitale umano (conoscenza) senza capitale fisico.
In altre parole, sarebbe possibile avere una crescita continua del PIL come produzione di oggetti dematerializzati (informazione, cultura, conoscenza, …), almeno in teoria e con alcuni importanti caveat.
In primo luogo, il modello di uno sviluppo senza crescita è molto difficile da concepire in società che hanno già raggiunto elevati livelli di benessere materiale, ma è del tutto impensabile in paesi che ne sono lontani; questo allontana molto la prospettiva di una crescita globale dematerializzata. In secondo luogo, il settore dei servizi è quanto mai eterogeneo ed alcune tipologie di servizio che colleghiamo strettamente alla qualità della vita non sono o sono in minima parte smaterializzabili: penso ad esempio alla salute e ai servizi di cura, che richiedono di essere sostenuti da industrie ad alto contenuto di capitale fisico (edilizia per le strutture, macchinari medici, farmaceutica, etc.). Infine, anche il settore dell’informazione, al quale sono legate le prospettive di digitalizzazione e di dematerializzazione dell’economia ha delle importanti ricadute sulla produzione materiale: un dato indicativo sta nel fatto che la produzione di semiconduttori, componente base di tutta l’elettronica, richiede un consumo energetico comparabile a quello dei classici materiali dell’industria pesante come cemento e acciaio .

In conclusione, il tema della (de)crescita è un problema complesso quanto ineludibile. Il PIL, che abbiamo definito come valore monetario della produzione, corrisponde anche alla somma dei redditi percepiti da lavoratori e proprietari del capitale. Se anche a livello complessivo potessimo dire di aver raggiunto un benessere materiale adeguato e che possiamo accontentarci di quello che abbiamo, le disuguaglianze, sia a livello globale sia anche all’interno delle economie più avanzate, sono tali che una crescita zero dovrebbe risultare da una media tra le legittime aspirazioni delle fasce più povere e una decrescita della parte più ricca. Non siamo preparati per un modello di sviluppo di questo tipo ma, al tempo stesso, non possiamo affidarci allo spensierato ottimismo di quanti sostengono che l’innovazione tecnologica alla fine risolve tutto. Serve l’innovazione tecnologica, ma forse è ancor più urgente una innovazione culturale, politica e istituzionale. Come Smil conclude nel suo libro, “Credo che un fondamentale allontanamento dal modello consolidato di massimizzazione della crescita e di promozione del consumo materiale non possa essere ritardato di un altro secolo e che prima del 2100 la civiltà moderna dovrà compiere passi importanti per garantire l’abitabilità a lungo termine della sua biosfera”.

Silvio Cuneo